Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, nella politica del Mediterraneo

di Armando Pepe 

Si fa prima a dire ciò che non è «Ferdinando IV di Borbone. Il Regno di Napoli e il Grande Gioco del Mediterraneo», scritto da Emilio Gin, edito recentemente da Rubbettino. Non è una biografia aneddotica, come in passato ce ne sono state, ma un lavoro di ricerca, che apre nuove prospettive, scaturito da un mirato scavo archivistico. Lo si può dividere in due parti: una prima, in cui le vicende dinastiche di casa Borbone si intrecciano con la politica estera napoletana, opportunamente messa in evidenza; una seconda, più contenuta, sugli avvenimenti del 1799, rivoluzione e conseguente reazione sanfedista. Gin dà corpo al libro, con un incipit che è già un programma. D’altronde la politica estera, per una nazione come il Regno di Napoli, non poteva che essere fatta da accordi, su scala europea, per una più sicura navigazione.

Emerge, come si è accennato, una figura regale attenta al mondo e non solo dedita a feste e cacce, che cercava disperatamente di affrancarsi da un complesso di minorità nei confronti del padre, l’ingombrante Carlo III di Borbone, e della Spagna. Ciò avvenne progressivamente, senza scatti repentini, poco alla volta. Un lento distacco, plasticamente descritto: «Il 7 ottobre 1759, il gran pavese della flotta congiunta iberica e napoletana accoglieva a bordo il re Carlo di Borbone per far vela verso il suo nuovo trono in terra spagnola. Di quella giornata disponiamo di un affresco suggestivo di Antonio Joli che, su commissione reale, raffigurò per la memoria dei posteri il momento della partenza. Le due opere del vedutista modenese, riprodotte in vari esemplari, esprimevano bene l’immagine che Carlo voleva si conservasse al termine del suo regno napoletano. Nella “veduta da mare” della scena, Napoli vi appare in tutto il suo splendore di città rinnovata dai cospicui interventi urbanistici dell’età carolina, dal porto al palazzo reale, che ne avevano donato l’aspetto di una moderna capitale europea. Per di più, sulla collina di Capodimonte faceva già sfoggio della sua imponenza la futura reggia […] Accanto alla città, l’altra grande protagonista della rappresentazione, vividamente raffigurata nell’olio su tela dell’artista, sia nella veduta da terra che in quella da mare, era la flotta. Un’esaltazione del ruolo di grande potenza marittima della Spagna, ma anche una pubblica riconferma dello stretto rapporto che a lungo, anche e in special modo sul mare, aveva legato Madrid e Napoli, antemurale mediterraneo, quest’ultima, contro la minaccia ottomana e pilastro periferico ma fondamentale, mediante lo Stato dei Presidi, per garantire la proiezione della forza e dell’influenza iberiche sul resto della Penisola» (p. 15).

L’abbondante citazione racchiude in sé il nodo programmatico del libro: il complesso rapporto tra Napoli e il mare, perché Napoli è il mare. Gin ha ben presente il canone braudeliano, ma anche la lezione di Giuseppe Galasso. Quando Napoli era dipendente dal sistema di potere spagnolo cercava necessariamente protezione in esso contro le insidie barbaresche, che angustiavano le coste laddove si presentavano sguarnite. Liberatasi dal giogo spagnolo, agognando l’autonomia, la monarchia napoletana doveva cavarsela da sola e lo fece, da quanto emerge dal libro, abbastanza bene, sapendo relazionarsi diplomaticamente con le principali potenze europee e con gli Stati che si affacciavano sul bacino mediterraneo. Un percorso non sempre facile e non sempre lineare, con energici contraccolpi, che procedevano con l’unico scopo di liberarsi dalla sgradita premura della nazione iberica: «Il licenziamento di [Bernardo] Tanucci, in seguito al fallimento della disastrosa manovra per colpire la Massoneria, non aveva interrotto la volontà di Ferdinando di conquistarsi la fiducia del padre. Sul punto, è importante sottolineare quanto nei suoi tentativi, ancor prima della giubilazione del ministro toscano, il Re di Napoli mostrasse di essere consapevole della delicatezza della situazione e del pericolo che l’esuberanza e l’ambizione della sua giovane moglie rischiassero di turbare gli equilibri politici del Regno in senso troppo favorevole a Vienna. Proprio per questo motivo, Ferdinando si era deciso a chiedere il supporto paterno, scrivendo all’insaputa di Maria Carolina, sottolineando che l’atteggiamento conciliante da lui tenuto di fronte alle sue impennate era dovuto, al di là della sua disposizione caratteriale, proprio alla volontà di creare meno punti di frizione con gli Asburgo. Dimesso Tanucci, inoltre, Ferdinando avrebbe infatti continuato a inviare a Carlo i verbali delle risoluzioni prese nei consigli e avrebbe ripreso a insistere sulla richiesta di essere ricevuto a Madrid, in modo da essere riconosciuto pubblicamente quale punto di riferimento naturale, e dunque garante, del mantenimento del rapporto privilegiato con la Spagna. Le risposte di Carlo, come già anticipato, furono scoraggianti e si tradussero in un atteggiamento di totale chiusura nei confronti del figlio» (p. 35).

Il Regno di Napoli dovette imparare a vivere da solo. Compito di non facile soluzione; ma ci riuscì, aprendosi a nuove esperienze, alleanze tattiche e diplomatiche, affidandosi ad uomini capaci, che seppero allestire una flotta ragguardevole. Qui si inserisce un personaggio che a pieno titolo è da considerare il fondatore della moderna marina militare napoletana, ovvero John Acton, inglese nato in Francia, di confessione cattolica.

 Scrive l’Autore: «Che il legame tra Ferdinando e Acton fosse solido e intimo al di là del mero piano politico […] risultava ancora evidente anche a molti anni di distanza, quando ormai l’influenza del ministro era giunta al tramonto. Visto l’interesse spiccato del Re per il Mediterraneo e l’attenzione precoce da parte sua nei confronti del brillante marinaio britannico, è naturale che il rapporto tra i due si sia consolidato immediatamente e non grazie agli assilli di Maria Carolina. Nel difendere il suo ministro dalle accuse di Carlo, Ferdinando, tra le altre cose, sottolineava proprio il rapporto di stima e di leale fiducia instauratosi, fiducia che Ferdinando concedeva- come più volte aveva ribadito al padre- a pochissime persone. In realtà, data la solidità del legame, era magari proprio la Regina a dover manifestare il suo interesse verso Acton per avere maggiori possibilità d’influenza verso Ferdinando che, lo abbiamo visto, era tutto meno che disposto a cedere sulle sue prerogative sovrane. Certo, l’esuberanza e l’invadenza di Maria Carolina, l’accondiscendenza del Re sull’etichetta, sui divertimenti e sulle raccomandazioni a corte, molto impressionarono i contemporanei facendo pensare che ormai i destini del Regno dipendessero dai suoi volubili umori (e amori) riducendo come sempre Ferdinando nello stereotipo del re fannullone» (p. 41). A torto, ritratto caricaturale che non corrisponde al vero. Fa bene l’Autore a metterlo in evidenza.

Gin prende in considerazione i trattati stipulati tra la Corte di Napoli e gli Stati europei. Gli ambasciatori napoletani seppero lavorare con acume, comportandosi da abili mediatori, a San Pietroburgo, Vienna, Parigi, Costantinopoli, ovunque si trovassero.

Passiamo ora alla seconda parte del libro. Dopo la Rivoluzione napoletana del 1799 bisognava, da parte borbonica, riconquistare il Regno. In questo frangente, il più sagace fu il cardinale Ruffo, che seppe risolvere la questione di Catanzaro, senza eccessivo spargimento di sangue. L’ecclesiastico trovò sponda in Maria Carolina, che proprio a partire dalla restaurazione, progressivamente e lentamente, perse il suo potere persuasivo nei confronti di Ferdinando. Nella ricostruzione di queste vicende Gin si avvale della copiosa documentazione ritrovata e sistematizzata da Benedetto Croce.

Va dato atto all’Autore di essere stato sintetico, pur avendo affrontato, con acribia e facilità di scrittura, una materia molto impegnativa.

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