E se in crisi fosse l’idea stessa di democrazia?

di Salvatore Sechi
Recensione al libro di Paolo Cirino Pomicino, Il grande inganno. Controstoria della Seconda Repubblica, Lindau, Torino 2022, euro 18, 50.
Per decenni gli intellettuali della sinistra democristiana hanno imbandito il dibattito politico con un piatto di portata, chiamato democrazia compiuta. Era il referente lessicale di un’altra stravaganza inventata dai comunisti, alle soglie del fascismo, “democrazia popolare” o “democrazia di tipo nuovo”.
Dietro questo metastasi lessicale c’era solo un obiettivo comune alle ali (o correnti) della Dc e del Pci, cioè fare presente che la democrazia liberale stava loro addosso come un vestito stretto. Amarono incipriarlo con questo linguaggio retorico al centro del quale c’era il popolo, la sovranità del popolo ecc.
Chi pensava che volessero riferirsi al diritto degli strati popolari (come le donne) di votare, cioè di essere rappresentanti nelle assemblee elettive (Camera, Sen to) o nei Comuni e nelle Regioni, mostrò di non avere capito niente. Queste sedi di ampliamento dell’esercizio della partecipazione popolare erano già previste dalla carta costituzionale.
In realtà quello che democristiani di sinistra e comunisti intendevano soste nere era che bisognava superare proprio questo perimetro della rappresentanza politica sancita dalla cultura e dalle istituzioni liberali e munire il popolo di maggiori poteri.
Poiché l’Italia faceva parte dell’Europa in cui vigeva una concezione, e una prassi, della democrazia chiamata delegata (cioè in cui il potere decisionale non era affidato direttamente al popolo degli elettori, ma ad un sistema che lo amministrava per gradi, funzioni, mediante processi, iter ecc., organi costituzionali di primo e secondo grado), non si è avuta la deriva nel dispotismo.
Fu la sorte riservata proprio delle democrazie popolari dell’Europa orientale. Qui il potere del popolo è stato di rito sovietico .Ha coinciso con la sovranità dei partiti comunisti, che sono stati gli organi delle dittature comuniste.
Nell’esperienza italiana, l’esclusione del Pci (legato all’Unione sovietica e privo di un consenso elettorale adeguato ad assicurane l’autosufficienza nel governare) ha fatto coincidere le formule evocate da Togliatti dopo la guerra di Spagna in ogni possibile operazione -sul piano legislativo e amministrativo- per essere cooptato nell’assai lungo e frastagliato processo decisionale.
.Il ruolo del Pci è stato niente di più che di ruota di scorta dei governi esistenti soprattutto nell’esecuzione delle leggi. Ha potuto valorizzare la risorsa scarsa del consenso elettorale, utilizzando gli assai ampi spazi di manovra consentiti dal fatto che a livello locale i comunisti hanno sempre potuto godere di una grande area di consenso e quindi di un potere di controllo, a livello locale, dell’esecuzione delle normative generali formulate dai governi.
Cirino Pomicino ha fornito una narrazione assai convincente di questo processo che è durato durante tutta la prima Repubblica.
Lo ha pubblicato a Torino l’editore Lindau, col titolo Il grande inganno. Controstoria della Seconda Repubblica. Il suo non è una litania di rimpianti, ma la narrazione limpida di quel che non c’è più (i partiti di massa e di centro), insieme alla ricerca degli errori che hanno portato al naufragio della demo crazia repubblicana.
Ne sopravvivono le forme istituzionali (le due assemblee parlamentari, Camera e Senato), ma si tratta ormai di gusci vuoti. Il parlamento è di ventato un puro luogo di ratifica delle decisioni dei governi in carica. Da anni mancano di ogni legittimazione popolare, cioè non sono stati eletti col voto. Anche per via del cumularsi di emergenze( economiche e sanitarie, e ora della guerra di sterminio dichiarata dalla Russia contro l’Ucraina), l’Unione europea ha progressivamente spogliato di ogni autorità quelli che erano i poteri sovrani dei singoli Stati.
Pomicino ha la penna facile, ma non inventa nulla che non sua verificabile, nel rilevare che al naufragio dei vecchi partiti (DC, Pci e Psi, muniti di un’ideologia e soprattutto di una visione del futuro mai appiattita sul presente), ha fatto seguito la loro trasformazione in organi distributori a getto continuo di mance, impieghi, commesse, vitalizi, concessioni ecc.
E’ patetico che Il Fatto Quotidiano si accorga solo ora che Luigi Di Maio, qualunque ministero abbia occupato, non ha saputo fare altro che fornire stipendi e salari al suo circuito elettorale. Ed Enrico Letta, dopo le vedove inconsolabili di Franceschini e del suo stesso predecessore al Nazareno, , Luca Zingaretti, come ha fatto ad accodarsi all’idea di collaborare con i Cinque Stelle? Se non bastavano le dichiarazioni di Renzi, Calenda, Irene Tinagli, perché non leggersi le analisi della vicesegretaria del suo stesso partito, che ha documentato l’assenza di ogni professionalità politica, e anche civile, nei parlamentari di Cinque Stelle?
La domanda che Pomicino non si pone è se si possa parlare di democrazia per un sistema in cui oltre il 50% degli elettori se ne sta a casa e il successo è assicurato a imbonitori, elargitori di promesse, mercanti di sogni ecc.
Al partito creato da un comico come Beppe Grillo nel 2018 promettere il reddito di cittadinanza ha fruttato comunque un bottino del 33% dei consensi. Oggi Berlusconi suona lo stesso spartito portando a mille Euro le pensioni minime. A Franceschini credo basati la rendita di posizione di ministro dei beni culturali. Alla Lega in Sardegna sono le concessioni balneari (come lo scempio della spiaggia della Rena Bianca a S. Teresa Gallura ) e il turismo di massa a far alzare la bilancia dei voti.
Il sovranismo, con la retorica dei valori identitari, il razzismo verso gli immigrati, i giri di valzer con Putin, si concilia con tutto ciò. A non conciliarsi è un’idea della democrazia non identificata col semplice esercizio del voto, munita di competenza e professionalità, con un’idea di futuro in Europa e nel mondo.
Su questo panorama che non c’è Paolo Cirino Pomicino ha voluto richiamare l’attenzione, suonando un appassionato ma implacabile campanello d’allarme.