Aurelio Padovani, fascista intransigente e senza requie

di Armando Pepe
Nonostante la figura, dotata di grande carisma nel quadro complessivo dei gerarchi fascisti della prima ora, di Aurelio Padovani mancava ancora una biografia seria, non apologetica, anzi indubbiamente oggettiva, che ne mettesse a posto i tasselli, inevitabilmente sparsi, restituendola alla storiografia. Aurelio Padovani fu a capo del fascismo campano per pochi anni; tuttavia, ne rimane il leader per antonomasia. A ricostruirne il viaggio terrestre ci ha pensato Gigi Di Fiore, giornalista del Mattino e saggista. Lo ha fatto per gradi, sondando gli archivi comunali di Portici e Napoli, l’archivio di Stato di Napoli e l’archivio centrale dello Stato, a Roma. Dati anagrafici e fatti rilevanti sono calettati con garbo e lucidità, in modo che la narrazione sia sempre fluida e accattivante. Nel 1922, «il fascismo poteva conquistare il governo dell’Italia e tutto sarebbe partito da Napoli. A trentatré anni, Aurelio Padovani si sentiva investito di una grande responsabilità. Proprio lui, Aurelio, Eugenio, Francesco, Paolo, Luigi, come risultava iscritto con i nomi in successione all’anagrafe del comune di Portici, alle porte di Napoli, dove era nato. Il figlio dell’avvocato cinquantenne Vincenzo era tra i principali organizzatori della grande adunata e del congresso del Partito fascista» (p. 21). Giovane bersagliere di una tempra d’acciaio, aveva combattuto sia in Tripolitania sia durante la Prima guerra mondiale, ricevendo per l’audacia mostrata encomi e medaglie d’argento. Sposato con Ida Archinard, proveniente da un’agiata famiglia di gioiellieri di origini ginevrine ma stabilitasi a Napoli nei primi decenni dell’Ottocento, Padovani non ebbe prole. Aderì convintamente e sinceramente al fascismo, sin dalle origini, pur non essendo un sansepolcrista. Prima della marcia su Roma, «dall’agosto del 1922 fino a ottobre, il capitano (grado che Padovani aveva raggiunto nell’esercito) passò settimane frenetiche di attività organizzative. Sapeva che il grande raduno doveva dimostrare al partito che anche il Mezzogiorno, seppure in ritardo rispetto al Centro-Nord, poteva diventare una miniera di consensi per le camicie nere. Ecco perché non doveva fallire l’appuntamento napoletano e Padovani ne avvertì tutta la responsabilità, studiando nei dettagli i problemi logistici, legati all’arrivo di non meno di trentamila fascisti» (p. 25). In verità si diede molto da fare, ma la linearità della propria condotta adamantina si spezzò, quando, durante il 1923, nel Partito nazionale fascista entrarono i nazionalisti, guidati in Terra di Lavoro da Paolo Greco; fu uno scontro epico e drammatico, a causa del quale, con cinismo, machiavellicamente Padovani fu sacrificato da Mussolini sull’altare dell’opportunità. Seguirono anni ingrati, certamente difficili, anche perché Padovani, uscito dal partito e per ciò stesso inviso alle gerarchie, era pedinato dalla polizia e osteggiato apertamente dalla prefettura. Però, il filo del dialogo con Mussolini non si spezzò, durando fino alla morte, tragicamente avvenuta nel 1926. La vedova rimase rattristata nella tela delle indubitabili angosce, non adendo, nondimeno, le vie legali. Il merito dell’Autore è anche quello di aver diradato le ombre, di aver fatto definitivamente luce sulla morte, sventurata e lacrimevole, di Aurelio Padovani, dei suoi seguaci e sui processi che ne seguirono.
Gigi Di Fiore dedica un’abbondante porzione del libro, tre capitoli (dal sesto al nono e ultimo) per più di centoventi pagine, alla tragica fine del capitano Padovani, descrivendo in dettaglio i suoi sodali nella calamità, nonché il complesso e faticoso iter giudiziario, che si concluse al secondo grado di giudizio. Padovani e i suoi adepti morirono nel borgo di Santa Lucia, precisamente nel Rione Orsini. «Trasferirsi in quella nuova zona di Napoli, molto elegante e non lontano da Piazza Plebiscito, rappresentava un’occasione e un salto di qualità per Padovani. Naturalmente, non poteva permettersi di acquistare una casa tanto costosa, ma aveva i mezzi per affittarla» (p. 244). Per l’appunto, «il capitano sarebbe andato ad abitare al quarto piano del palazzo N, che la società (di costruzioni) considerava quello di maggiore pregio perché ad angolo, in direzione del mare» (p. 246). Il 16 giugno 1926, nel giorno di Sant’Aurelio, molti suoi accoliti «lo chiamavano ad alta voce e con i clacson, e lui fu costretto ad affacciarsi dal balcone che correva lungo tre stanze dell’appartamento e aveva una balaustra in cemento e un’inferriata dalla quale potersi sporgere» (p. 247). Erano le 17 e 30, Aurelio Padovani uscì sul balcone, «si appoggiò appena alla balaustra, con dietro altri che lo spingevano, cercando di guardare quanta gente c’era sotto in strada. Erano una ventina su quel balcone, non c’era più un centimetro di spazio libero. Fu un attimo, nessuno capì che cosa stesse per accadere. Un crollo spaventoso, il balcone si era sgretolato, d’un tratto la balaustra, la tabella (dal peso di 47 kg, su cui era inciso il proprio nome), e tutto il carico di cemento e ferro, rifiniti e costruiti da così poco tempo, non c’erano più». Una fine, luttuosamente impressionante, davanti al Golfo di Napoli. Di morti, oltre a Padovani, «alla fine se ne contarono otto: l’impiegato ventottenne Alfredo De Filippis, il ragioniere ventiquattrenne Salvatore Grasso, l’avvocato trentaduenne Ferdinando Vetere, il ragioniere trentaseienne Salvatore Schioppa, il quindicenne Luigi Corcione, l’elettricista giuglianese Antonio Micillo, l’appaltatore afragolese Salvatore Dell’Aquila, il ventenne Raffaele Esposito, di Secondigliano» (p. 249). Dopo i solenni funerali, celebrati nella chiesa di San Francesco di Paola, in piazza del Plebiscito, si aprì il processo per appurare la verità giudiziaria, ove, al secondo grado, vennero condannati esclusivamente i subappaltatori, padre e figlio, che avevano rifinito il balcone. Anche il monumento funebre di Padovani non ebbe requie, dopo la fine del fascismo, come scrive egregiamente Gigi Di Fiore nel suo magistrale saggio di storiografia.