Aldo Fabrizi
di Aldo Fabrizi
Avevo cominciato a scrivere la mia storia da quando ero ragazzino e abitavo a l’Arco di Santa Margherita, in via del Pellegrino. Mamma mia, da ragazza, povera povera, per farsi i soldi del corredo s’era costruita un trabiccolo al mercato di Campo de’ Fiori, ci portava ogni giorno un grosso catino di pastasciutta e la vendeva un soldo al piatto. Il viaggio di nozze dei miei genitori fu a Napoli. Consumarono dopo otto giorni, con gli spermatozoi di mio padre nutriti di cozze e vongole. Nove mesi dopo naqui io. Quando incominciai ero un ragazzo che usciva da un vicolo cieco. Dico seriamente. Abitavamo in una stradina senza uscita, un vicolo cieco appunto, ed è da quel vicolo che mi incamminai verso il mondo. A primavera, a Piazza Farnese cresceva l’erba tra un selcio e l’altro: la piazza diventava tutta quadrettata di verde. Poi venivano quelli del comune, con certi ganci raschiavano via l’erba dalle fessure e io ci soffrivo, come se quei ganci me li passassero sul cuore. Sono andato avanti lo stesso. Lavoro, tanto lavoro. Eppure sono un indolente, ho sprecato e sprecato troppo tempo. Mi è sempre piaciuto cucinare: mio zio era un oste. In principio parlavo soltanto il romanesco, non ero capace di esprimermi in italiano, magari neanche adesso sono capace di farlo veramente. Ma presto mi feci coraggio e uscii dal bozzolo. La mia infanzia è stata vissuta nella povertà, senza neppure il conforto degli studi. Avevo undici anni quando morì mio padre. Fui costretto a lasciare la scuola per il lavoro. Dovevo contribuire al precario bilancio familiare. Sono stato garzone di macellaio, aiuto barbiere, cuoco, cameriere, tipografo, muratore, lucidatore di mobili. Avevo appreso l’arte del recitare per necessità. Adesso occupo il mio tempo pensando al passato, e ricordo soprattutto mio padre. È lui che mi tiene compagnia nelle mie lunghe giornate senza sorrisi. Faceva il carrettiere, e usciva di casa alle tre del mattino per trasportare le venditrici con la loro mercanzia ai mercati generali. A mezzogiorno si riposava un’oretta per mangiare un pomodoro o un frutto che era riuscito a farsi regalare dai clienti. Poi ricominciava a trottare per raggranellare altri soldi: caricava cocomeri, trasportava bidoni di petrolio. Insomma faceva di tutto per sfamare la famiglia, composta da mia madre e da sei figli. Dormivamo tutti in uno stanzone e i miei genitori facevano l’amore nascondendosi sotto le coperte, in fretta e in silenzio per non turbare i bambini che non dovevano capire. Adesso che sono vecchio mi torna in mente il loro continuo sacrificio e mi dispiace che non abbiano goduto nemmeno di un attimo di passione. Tutto era avvelenato dalla miseria. Una miseria onesta, però, visto che in casa mia non si usava imbrogliare la gente. Ma gli altri invece erano diversi da noi. Perché infatti io, fidandomi ciecamente del prossimo, poi non ho fatto altro che accumulare delusioni. Io sono un raccoglitore di cose, un archivista. Conservo ancora la lettera che scrissi a mia madre quando feci la prima comunione, la prima lettera che scrissi a mia madre quando andai a fare il soldato… Erano altri tempi, quelli. C’è mai stato nella nostra vita un Natale malinconico? Lassamo perde’, che quanno me ricordo de quella vorta da regazzino che mi’ padre me comprò du’ scarpe sinistre pe’ sbajo, me viè ancora da piagne! Noi aspettavamo il cenone della vigilia, a base di fritto con la pastella. Si friggeva di tutto: baccalà, ricotta, zucca gialla, pesce, broccoli, mele, carciofi. Qualche anno ci capitava pure di berci su il vino, gran lusso a casa mia. Poi c’era il lato temperatura: io aspettavo Natale per scaldarmi un po’. A quel tempo, il caminetto ce l’avevano i titolati, poi c’erano bracieri e stufe a carbone per le famiglie medie, e lo scaldino per i poveri, cioè per i poveri anziani: a casa mia ce l’aveva solo mia nonna, e guai a chi glielo toccava. Io avevo il mio termosinfoncino privato: ed era un gatto. Quando mangiavo mi si metteva sulle spalle, mi riparava dallo spiffero della finestrella proprio dietro il mio posto e io in cambio gli davo qualche briciolo di cena. Prima di andare a dormire lo mettevo in fondo al letto, e mi ci scaldavo i piedi.

Racconto bellissimo che fa rivivere l’Italia sana e onesta di tempo fa, ormai sopraffatta dall’arrivismo, malcostume, arroganza e soprattutto, ignoranza, nonostante – è bene dirlo – le tante persone ancora perbene di questa nobile Nazione.
Pier Paolo