Al servizio di Churchill contro Mussolini. L’antifascismo italiano e «il dramma interiore della guerra»

di Gerardo Nicolosi 

Oie San Gennà, tu ca canusce tutte ‘e llengue, vancell’a ddicere a Ciurcill  ca chillo ca va truvanne isso nnun sta cà!”. Queste parole pronunciate durante un’incursione area degli Alleati su Napoli da una madre che con i suoi figlioletti al buio di un rifugio invocava l’aiuto del “miracoloso santo della città”, sono riportate nel primo capitolo delle memorie di uno stretto collaboratore di Benedetto Croce, Alfredo Parente. Il capitolo in questione porta il titolo de «Il dramma interiore della guerra» e, oltre a registrare il progressivo e diffuso distacco degli italiani dalle ragioni del conflitto, restituisce bene il travaglio di molti antifascisti, combattuti sin dal 1939 tra l’amore per la propria patria e l’avversione al regime, un’avversione così viscerale da scongiurare con tutte le loro forze una vittoria dell’Asse, che sarebbe andata «contro tutto il cristianesimo da San Paolo a Lutero, contro tutta la libertà umana dalla Magna Charta al Risorgimento», come scriveva Manlio Lupinacci.

Tornando ancora a quelle memorie, Parente si soffermava soprattutto sul dissidio interiore di Benedetto Croce, che nonostante la sua netta opposizione al regime, continuò a lungo a sentirsi ferito dall’immagine di un’Italia “piegata allo straniero” e quindi anche agli anglo-americani. Si trattava con tutta evidenza di una precisa accezione del concetto di “patria”, che Croce, nato nel 1866, aveva visto sotto i propri occhi concretamente realizzarsi e poi consolidarsi nelle sue istituzioni unitarie. Ben differente era invece l’atteggiamento dei più giovani sodali del filosofo, tra i quali lo stesso Parente, che auspicavano senza remore una sconfitta italiana sul piano militare, perché questa avrebbe significato anche un’occasione per sbarazzarsi del fascismo. Tanto auspicata era quella sconfitta, che quei giovani vedevano in ogni sibilo delle sirene dei rifugi «il sinistro fascino» delle incursioni aeree alleate.

Questa antinomia di fondo del vario antifascismo italiano è a nostro avviso una buona chiave di lettura dell’ultimo libro di Eugenio Di Rienzo, Sotto altra bandiera. Antifascisti italiani al servizio di Churchill, edito da Neri Pozza, che non a caso si apre con una amara riflessione di Croce tratta dai suoi Taccuini di guerra alla data del 27 luglio 1943, e che ha per oggetto la vicenda di alcuni nomi di punta dell’opposizione al fascismo che collaborarono con i servizi inglesi, in particolare lo Special Operations Executive. In poco più di duecento pagine e con scrittura scorrevole Di Rienzo ci restituisce i risultati di una ricerca condotta prevalentemente su documenti inediti da poco declassificati e messi a disposizione degli studiosi presso i National Archives inglesi, cui si aggiungono un buon numero di pubblicazioni in riviste specializzate e molta memorialistica.

A colpire è intanto l’omogeneità politica di massima dei profili che sono oggetto della ricerca, che sono quelli di Emilio Lussu, Alberto Tarchiani, Aldo Garosci, Max Salvadori e Leo Valiani, cioè cinque “padri” della Repubblica nata dalla Resistenza tutti, sebbene con differenti sfumature di posizioni, passati attraverso l’esperienza del Partito d’Azione dopo una militanza in «Giustizia e Libertà». Qui torna il nostro discorso di apertura sia dal punto di vista generazionale – nonostante Lussu e Tarchiani siano più avanti negli anni, si tratta di soggetti nati tutti tra la fine dell’Ottocento e i primi anni dieci del nuovo secolo (come Alfredo Parente, classe 1905) – sia dal punto di vista più propriamente politico, perché tutti fecero parte della corrente ideale fortemente critica nei confronti delle incompiutezze dell’Italia liberale e del liberalismo tout court e sui quali sicuramente più della lezione di Benedetto Croce ebbe presa quella di Gaetano Salvemini, giunta a questi “giovani” trentenni prevalentemente attraverso l’impegno morale e civile dei fratelli Rosselli.

Abbastanza comprensibile quindi come questi soggetti fossero accomunati anche da una diversa accezione della “patria” nata dal Risorgimento e di quella cultura che ne era stata la culla, di cui il neutralismo giolittiano era stato segnale evidente di inadeguatezza rispetto ai tempi di ferro inauguratisi con il nuovo secolo e qui, su tutti, basti pensare al convinto interventismo di Emilio Lussu. È su questo humus politico-culturale che a nostro avviso va collocata la scelta di militare “sotto altra bandiera”, come recita il bel titolo del libro, una scelta favorita anche dalla convinzione che quella che stava infiammando il mondo a partire dal settembre 1939 non fosse soltanto una guerra patriottica, ma uno scontro di ideali e di civiltà, da una parte la barbarie e la negazione stessa dell’umanità, dall’altra la libertà e la democrazia.

Una scelta dunque animata da forti motivazioni ideali e che dalle pagine di Di Rienzo sembrava però ignara delle ragioni di realpolitik che spingevano i servizi inglesi – e anche quelli americani – a instaurare “pericolosi” rapporti con agenti stranieri con l’ovvio e prevalente obiettivo di servire il proprio Governo, già attento ai possibili assetti geo-politici del dopoguerra, con particolare riguardo all’area mediterranea. Di tutto ciò ne erano ben coscienti invece “i vecchi”, e non solo Benedetto Croce, ma anche Gaetano Salvemini, che avrebbe mosso volentieri guerra all’Italia fascista, ma che non esitò ad ammonire lo “stato maggiore” della Mazzini Society – Tarchiani, Cianca, Sforza – sul rischio di un possibile “pactum subiectionis” che prima o poi sarebbe stato imposto dagli anglo-americani in cambio della collaborazione degli antifascisti. Gli interventi di Salvemini in questa direzione e il suo “realismo” sono davvero eloquenti di una grande sensibilità di osservatore delle relazioni internazionali del suo tempo, ciò che d’altronde è attestato dai suoi studi sulla politica estera di Mussolini.

Quanto ricostruito da Di Rienzo aiuta dunque a riconsiderare alcuni passaggi chiave di questa delicata fase della storia d’Italia, che – e qui non diciamo nulla di inedito – è stata forse troppo spesso letta attraverso la lente dell’ideologia. Alla luce di questo studio, possiamo dunque comprendere meglio innanzitutto lo sforzo immane che a partire dal 25 luglio e ancor più dopo l’8 settembre è stato profuso dalle autorità legittime di quello che restava dell’organismo unitario e dalle forze dell’antifascismo democratico per garantire per quanto possibile un minimo di italianità della loro iniziativa sul piano politico e militare.

I frangenti da portare in causa sarebbero molti. Ci limitiamo qui a ricordare la funzione di opposizione costituzionale che le forze moderate del Cln esercitarono nei confronti del primo governo Badoglio, quando la creazione del Regno del Sud, che pure garantì una continuità dello Stato scongiurando una possibile debellatio, collimava però anche con gli interessi di Churchill, oppure i ripetuti tentativi inizialmente frustrati di creazione di un Corpo di volontari della libertà e poi di ricostituzione dell’esercito nazionale, ai quali seguì l’impegno attivo dei militari italiani nella lotta al nazifascismo. Così come non si può dimenticare l’impegno della nostra diplomazia prima a Brindisi e poi a Salerno per la ripresa di una politica estera autonoma pur nell’ambito dell’opprimente regime armistiziale, attività che effettivamente fu posta in essere e con risultati concreti. Per non dire poi della opposizione dei partiti moderati alla trasformazione del Cln e quindi alla creazione di una République des Comités, laddove una deriva rivoluzionaria avrebbe offerto il pretesto agli eserciti occupanti per soffocare il processo di ripristino degli istituti minimi di un regime liberale.

Se c’è un pregio di questo libro, che deve più degli altri essere messo in evidenza, è proprio quello di far riflettere sull’estrema complessità di quel passaggio, sull’enormità dello scontro degli interessi contrapposti, sulla varietà degli attori in gioco e la diversità delle ragioni che li animavano oltre che, ovviamente, sulla drammaticità del momento e sul rischio effettivo di una finis Italiae. Riteniamo che quindi esso possa contribuire a dare nuova luce anche alle interpretazioni sulla guerra civile. Tra le parole più belle che si possono leggere in questo volume, che contiene anche una ricostruzione della esecuzione di Mussolini che è tutta da leggere, ci sono quelle di Renzo De Felice tratte da una intervista del 1995, riproposta dall’autore a sostegno della sua tesi: «Si sa, invece, quanto orrore possa portare con sé una guerra civile, quanto di tragico e di indicibile, quanto di doppiezza, di simulazione, e ovviamente di non detto». Questo libro cerca di andare oltre la cortina del silenzio.

 

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