Acca Larentia, 7 gennaio 1978

di Franca Poli


Una storia breve quella di questi ragazzi, una storia di armi e di periferia, di vite negate. Acca Larentia è il nome di una piazzetta di Roma e negli anni ottanta diventò il nome di una sede del MSI. Ripensando a quei giorni, rivedendo le immagini sembra di trovarsi dentro un film di quelli in bianco e nero del neo –realismo. Ad ascoltare bene pare di sentire ancora gli slogans che si urlavano per le strade, un’eco lontana come il rumore del mare dentro una conchiglia. E sembra di vederli quei ragazzi: tutti per lo più con la sfumatura dei capelli alta, gli occhiali Ray-Ban, le camicie mimetiche,i fazzoletti neri con i colori dei parà, ma anche qualche loden, il cappotto con la bugia dietro, e qualcuno con i capelli moderatamente lunghi, parecchia barba e i mocassini ai piedi. Giovani che erano veri eroi, che sfidavano l’omologazione voluta dalla sinistra e dal potere imperante, che si riunivano con coraggio, con determinazione e cocciutaggine in qualche sede sgangherata per condividere idee e per dire no alla prepotenza di altri ragazzi che volevano imporsi con la forza dei numeri. Persone piene di umanità e di ideali,disposti anche all’estremo sacrificio. Una razza che si è estinta, militanti puri, magari anche con un bassissimo livello di preparazione politica, ma impagabili per fedeltà e impegno.
I ragazzi che quella sera si trovavano alla sede di Acca Larentia, stavano appunto prendendo il via per uno dei loro quotidiani impegni: informare,lottare, scrivere. Quella sera avrebbero fatto volantinaggio per pubblicizzare un concerto degli Amici del Vento. Sono in sede Francesco Ciavatta, figlio del portiere dello stabile, Maurizio Lupini, giovane dirigente di estrazione popolare, Franco Bigonzetti, studente di Medicina, un altro studente Giuseppe D’Audino e Vincenzo Segneri un giovane meccanico. Dai racconti dei sopravvissuti si è ricostruito quanto successe: si era all’imbrunire e si era deciso di chiudere la sezione, le ultime raccomandazioni “hai spento la luce?”la preoccupazione di quelle bollette sempre troppo care per le loro tasche. Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta sono già sull’uscio, e mentre parlano con gli amici che stanno dentro , danno le spalle alla strada e non si accorgono che dietro di loro, dietro i piloncini di marmo che delimitano il marciapiede, hanno preso posizione, come un plotone di esecuzione, cinque o sei vigliacchi armati, con il volto appena coperto da sciarpe e passamontagna. Era la sera del 7 gennaio 1978 e cominciarono a sparare alle spalle di quei ragazzi innocenti. Fiamme e fumo uscivano dalle canne, un crepitio di colpi che sembrarono agli ignari bersagli dei tardivi mortaretti di capodanno. Franco fu il primo a cadere poi con una prontezza di spirito provvidenziale Vincenzo Sogneri spinse i camerati con forza all’interno ebarricò la porta. Il buio li salvò dalle raffiche che continuavano a esplodere. Frastornati dall’accaduto, senza nemmeno rendersi conto della tragedia che si era appena compiuta i ragazzi sentivano urla, passi , altre esplosioni, poi il silenzio. Quando trovarono il coraggio di accendere la luce si accorsero che mancavano Franco e Francesco, del sangue entrava da sotto lo stipite, in preda al panico aprirono la porta e Franco era lì in terra, morto e con il viso orribilmente straziato. Poco lontano, giaceva Francesco che invece era ancora vivo e prima di chiudere per sempre gli occhi riuscì a dire “Non pensate a me, pensate a Franco che sta messo peggio…” aveva tre proiettili in corpo, uno gli ha spaccato il cuore. Vincenzo Segneri era ferito a un braccio e gridava, come un ossesso, ma non era il dolore della ferita a farlo urlare, bensì lo strazio indicibile, per la violenza cui aveva assistito. Nell’agguato sono state usate pistole a canna corta, ma i colpi andati a segno sono stati sparati da una mitraglietta Skorpion. La storia di questa arma, merita un cenno, fu acquistata in un’armeria di Saint Vincent nel 1970 da un distinto signore con gli occhiali che rispondeva al nome di Enrico Sbriccoli, più noto al pubblico italiano come Jimmy Fontana, morto l’11 settembre 2013. Fino alla sua morte era possibile sentirlo cantare in certe balere le sere d’estate e le signore attempate si commuovevano al ritmo delle note del suo cavallo di battaglia “Il mondo” ed è difficile spiegarsi come mai proprio quell’arma fu quella che sparò la sera del 7 gennaio ad Acca Larentia. L’inchiesta su Jimmy Fontana fu chiusa senza luogo a procedere poiché il noto cantante dichiarò di essersi sbarazzato dell’arma poco dopo l’acquisto e di averla ceduta a un ex poliziotto. Troppo poco per non lasciare dubbi, ma anche troppo poco, secondo i giudici , per inquisirlo.
Quella maledetta sera d’inverno a Roma l’aria festiva post-natalizia non era sopita, le bancarelle a piazza Navona ancora da smantellare, qualche zampognaro molisano in giro a strimpellare le ultime note e gli alberi sfavillanti di luci ancora accesi sui balconi e nelle piazze, ma la tragedia non era ancora finita. Sul selciato giacevano i corpi di due giovani non ancora ventenni uccisi a sangue freddo, e nel giro di qualche ora ad Acca Larentia erano arrivati tutti i militanti e non, simpatizzanti, extraparlamentari, le forze dell’ordine, c’era un gran parapiglia, i ragazzi gridavano slogan, volevano in qualche modo sfogare la loro rabbia impotente, avevano disteso bandiere a terra per coprire il sangue dei loro camerati i poliziotti li spintonano, vorrebbero smobilitarli, la situazione si fa incandescente e precipita nel giro di pochi attimi. C’è chi racconta che la scintilla scoppiò quando un giornalista gettò sul sangue non ancora rappreso di Francesco una cicca di sigaretta e per evitare il linciaggio un carabiniere sparò ad altezza uomo. Non è dato conoscere come si siano davvero svolti i fatti, ma la realtà non cambia in quel momento di pura follia un altro vigliacco, che mai pagò per il suo gesto inconsulto, questa volta con indosso una divisa da carabiniere, sparò a uno dei giovani che aveva di fronte. A cadere raggiunto da un colpo in mezzo alla fronte è un ventenne: si chiamava Stefano Recchioni e sarebbe dovuto partire da lì a pochi giorni per andare ad arruolarsi nei paracadutisti, coronando il suo sogno. Era un bel ragazzo Stefano, piaceva alle coetanee, aveva un bel sorriso e un grande cuore che smise di battere dopo due giorni di agonia, senza essere mai uscito dal coma.
Concludiamo con le parole della madre di Stefano “io sono disperata perché mi manca un figlio, ma sono felice perché è morto per un atto d’amore (….) Stefano è uscito di casa per andare per andare a trovare un amico morto: il suo è stato un gesto d’amore. E se non capiamo che soltanto l’amore ci potrà salvare siamo perduti.”

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